Walter Zenga cresce nella periferia milanese con il mito dell’America. E quando San Siro congeda l’Uomo Ragno non si fa scappare l’offerta dei New England Revolution di Boston, dove approda nel 1998. Il passaggio dalla porta alla panchina è rapido: giocatore, allenatore-giocatore, allenatore. “Il problema del soccer sono le grandi distanze. Per alleggerire il disagio il calendario prevede delle doppie trasferte. Quando Boston va sulla west coast gioca lì due partite consecutive per evitare un andirivieni sfiancante”. Chiusa l’esperienza a stelle e strisce, Zenga rientra in Europa e trasvola l’Italia per stabilirsi al National Bucarest. Nonostante la finale di Coppa Romania, lascia dopo solo un anno quando Aleandro Dall’Oglio, presidente del Como, gli prospetta la possibilità di sostituire Eugenio Fascetti. Ma la panchina lariana sfuma e Zenga torna a Bucarest, questa volta però dai rivali dello Steaua che guida alla conquista del titolo nazionale. “In Romania c’è grande entusiasmo per il calcio, come in Italia si pubblicano tre quotidiani sportivi e le trasmissioni televisive abbondano”. Attualmente è l’allenatore della Stella Rossa, recentemente eliminato in Coppa Uefa nonostante il sonoro 3 –1 che rifila alla Roma di Luciano Spalletti. “Vivendo a Belgrado è palpabile la voglia della gente di lasciarsi alle spalle il passato di guerre e il riscatto lo si cerca nello sport.” La cultura locale non è tra i principali interessi di Zenga “Non sono qui per fare il turista, e andare in giro per piazze o musei. Abito a cinquanta metri dallo stadio e tutto il mio tempo lo dedico al club. Quando posso staccare torno a Milano o a Bucarest, a casa di mia moglie Raluca”. Zenga ha un ottimo rapporto con i tifosi locali e, prima della sosta natalizia, ha scritto loro una lettera aperta sul sito internet della società con la chiosa ultrà “Red Star is life, the rest is trifle”.
Giocare a –15° è uno choc per Rino Lavezzini che nel 2004 assume la responsabilità tecnica del FK Sūduva, squadra di Marijampoles, cittadina di quarantamila abitanti a centotrenta chilometri da Vilnius. “A fare da intermediario è Fabrizio De Poli, il mio direttore sportivo ai tempi del Genoa. Per i lituani l’Italia rappresenta un modello di riferimento per il buon gusto, l’arte, lo stile di vita e, ovviamente, per il calcio. La dirigenza del Sūduva vuole a tutti i costi un tecnico italiano”. È un altro football: al campionato locale partecipano solo otto squadre che si affrontano quattro volte a stagione; gli orari delle partite sono sfalsati, così da consentire ai tifosi di assistere a più incontri; il simbolico prezzo del biglietto è di un euro. “Se non hai soldi, comunque entri lo stesso. Basta non insultare gli avversari o l’arbitro. Purtroppo è proprio con me che per la prima volta i tifosi locali vedono un allenatore rivolgersi al direttore di gara in maniera irriguardosa”. Le difficoltà maggiori per Lavezzini sono di ordine tattico, fatica ad esempio a spiegare il concetto di “cambio tattico”. “Per i lituani non è concepibile che una partita la giochi con tre punte e quella dopo con una”. I giocatori più importanti guadagnano millecinquecento euro al mese e appena possono scappano all’estero. “Molti emigrano in Scozia dagli Hearts of Midlothian, la squadra di proprietà di Vladimir Romanov costituita per metà da lituani”. Lavezzini interrompe anticipatamente l’avventura per difficoltà ambientali. “C’è veramente poco da fare lì. Per qualche svago maggiore c’è Vilnius, ma non posso tutti i giorni fare duecentosessanta chilometri di autostrada.” I lituani ci rimangono male e scendono tre volte in Italia per persuaderlo a tornare. “Se fosse una squadra della capitale tornerei, ma laggiù…”
Chi è ancora in trincea è Aldo Dolcetti, ex calciatore cresciuto nella Juventus e attuale responsabile dell’Honved, in Ungheria. “Con orgoglio posso dire di allenare una formazione che viene citata nei libri di storia del calcio. La squadra di Ferenc Puskas. Certo, oggi non è quella di allora”. Dolcetti scambia frequentemente opinioni con Lothar Matthaeus, allenatore della nazionale magiara. L’Honved è una squadra con molti giovani promettenti e l’ex pallone d’oro li segue con attenzione. Il giornale Nemzeti Sport, la locale Gazzetta dello Sport, elogia Dolcetti come esempio di lavoratore sobrio e umile, scrivendo: “voleva rimanere grigio, non ci sembri strano che qui, proprio per questo, si è fatto notare”. Ai giornalisti locali piace il suo basso profilo. Dopo una bella vittoria in campionato risponde all’acclamazione dei tifosi scrivendo loro: “grazie, ma celebrate quelli che fanno i gol”. I suoi modelli di riferimento sono due ex allenatori dell’Inter più buia, Mircea Lucescu e Corrado Orrico. “Quando giocavo ho avuto la fortuna di essere allenato da loro e, insieme con Bruno Bolchi, sono quelli che mi hanno insegnato il mestiere”. Con i suoi giocatori parla in inglese, la squadra è un melting pot dove si intrecciano le bandiere di Brasile, Mozambico, Mali, Francia e Bosnia.
Gigi Simoni a 67 anni ha smesso di allenare. Ora fa il direttore tecnico della Lucchese, ma non esclude di tornare a seguire le partite dal campo. L’ultima panchina importante su cui si è seduto è quella del Cska Sofia. “A introdurmi è Paolo Giulini, dirigente dell’Inter, che ha dei parenti in Bulgaria”. Simoni arriva a campionato iniziato alla fine del 2001. Conquista due secondi posti, in campionato e nella Coppa Bulgaria. “Probabilmente se avessi vinto lo scudetto sarei rimasto”. A convincerlo a rimpatriare è una disavventura personale “con mio figlio piccolo ammalato io e mia moglie fatichiamo a trovare un dottore”. Concluso il contratto con il Cska, il telefono di Simoni squilla in continuazione. Dall’altra parte del filo dirigenti di squadre russe, greche e turche provano vanamente a ingaggiarlo. “All’estero potevo andare molti anni prima. Subito dopo l’esonero dall’Inter mi cercò il Benfica. Chiusi l’esperienza a Milano il 30 novembre e a fine dicembre mi cercarono i portoghesi. Ma masticavo ancora amaro per quel licenziamento inaspettato e rifiutai. Poi mi chiamò il Betis Siviglia, dove non andai per la mia franchezza. Dissi al presidente che per competere per lo scudetto servivano un paio d’anni. Lui invece voleva vincere subito e depennò il mio nome.”
Filippo Nassetti
(Il Foglio, 31 gennaio 2006)